"Pagateci quello che ci dovete": il gender pay gap nello sport spiegato bene dalle cestiste della Wnba

Durante l'All-Star Game della Wnba - la Women’s National Basketball Association, corrispettivo della più famosa Nba maschile - dello scorso 19 luglio, ogni giocatrice è scesa in campo per il riscaldamento con una maglietta che riportava un messaggio chiaro: “Pay us what you owe us”, ovvero “Pagateci quello che ci dovete”. Le cestiste chiedono stipendi migliori e un sistema di compartecipazione alle entrate più efficace.
La protesta si è svolta nel bel mezzo delle trattative per il contratto collettivo di lavoro (CBA). Nonostante l'aumento degli spettatori, le presenze record e un nuovo accordo sui diritti mediatici da 2,2 miliardi di dollari, le giocatrici affermano che il loro stipendio non ha tenuto il passo con la crescita della lega. Attualmente, le giocatrici della Wnba percepiscono solo il 9,3% dei ricavi della lega e hanno uno stipendio medio di 102mila dollari, rispetto a quasi il 50% dei ricavi della lega e uno stipendio medio di oltre 1,1 milioni di dollari nell’Nba.
Il gender pay gap nello sportIl gender pay gap nello sport è una realtà ancora molto presente - sia negli Stati Uniti, dove si è svolta la protesta delle cestiste, sia a livello globale, sia in Italia. In generale, le donne atlete guadagnano molto meno degli uomini anche a parità di risultati, impegno e livello competitivo.
Se guardiamo alla classifica di Forbes dei 50 sportivi più pagati al mondo, non compare nessuna donna: è il secondo anno consecutivo che nessuna atleta donna riesce a entrare nella top 50 mondiale, nonostante cifre record per alcune atlete, come Coco Gauff, che nel 2024 ha guadagnato circa 34,4 milioni di dollari. Tuttavia, la soglia necessaria per entrare nella classifica del 2025 era di 53,6 milioni di dollari, ben al di sopra degli introiti delle atlete più pagate del mondo. Negli ultimi anni, le poche donne che sono riuscite nell’impresa sono state tenniste come Serena Williams, Naomi Osaka, Li Na e Maria Sharapova. Il tennis è infatti lo sport che più di tutti ha fatto passi avanti, anche se non si è ancora raggiunta una piena parità tra atleti e atlete.
Nel calcio, invece, il divario è estremamente evidente. Per la stagione 2025/26, ogni club che partecipa alla fase a gironi della Champions League maschile riceve una quota fissa di 18,62 milioni di euro, mentre premi ulteriori possono portare il totale a cifre decisamente superiori. Ma per la Champions League femminile, il montepremi è notevolmente inferiore: il totale distribuito si aggira sui 24 milioni di euro, ma la cifra massima per la squadra vincitrice può arrivare a circa 350.000 euro oltre ai bonus per le fasi precedenti: cifre lontanissime da quelle maschili. Per quanto riguarda l'Italia, il problema è anche legale: il passaggio al professionismo nel calcio femminile è avvenuto solo nel 2020 e questo ha portato profonde disuguaglianze sia nei salari che nei diritti (pensioni, maternità, malattia, etc). La distanza tra i guadagni delle calciatrici italiane e quelle dei colleghi maschi di Serie A resta molto ampia, sia in termini di cartellini sia di stipendi lordi annui.
Le cause del divarioAlla base del gender pay gap nello sport si annida un assunto tanto invisibile quanto potente: l’idea, ancora largamente diffusa, che la disparità sia in qualche modo “giustificata” dal fatto che lo sport femminile sia meno spettacolare, meno competitivo o meno attraente da seguire rispetto a quello maschile. Come spiega la giornalista Chiara Valerio su Vitamine Vaganti, le atlete vengono spesso considerate “naturalmente” meno veloci, meno forti, meno capaci: una narrazione che contribuisce a svalutare la loro performance e a minimizzare l'importanza del loro lavoro. Questo pregiudizio non solo è scientificamente scorretto, ma alimenta un sistema che penalizza le donne già a monte, influenzando visibilità, sponsorizzazioni e compensi.
L’industria sportivaUn altro fattore chiave è la struttura dell’industria sportiva, che da decenni privilegia gli sport considerati “maschili” come il calcio, il basket o la Formula 1. Sono questi gli sport che ricevono i maggiori investimenti, la copertura mediatica più massiccia e le campagne pubblicitarie più redditizie. Il circolo vizioso è evidente: più visibilità significa più pubblico, più entrate, più sponsor. E quindi stipendi più alti. Ma se le donne vengono sistematicamente escluse da questa catena del valore, è impossibile che possano colmare il divario. Le aziende, da parte loro, giustificano la sproporzione degli investimenti in base alla “commercializzabilità” degli atleti maschi, ritenuti più redditizi in termini di immagine e vendite. Dietro questa logica apparentemente neutra, però, si cela un’idea profondamente maschilista del valore sportivo e commerciale delle donne.
La copertura mediaticaAnche i media giocano un ruolo cruciale nel perpetuare questa disuguaglianza. Nonostante l’aumento esponenziale della partecipazione femminile allo sport in tutto il mondo, la copertura mediatica delle atlete è rimasta invariata da decenni. Secondo numerosi studi, le donne nello sport ricevono solo una minima parte dell’attenzione dei mezzi di comunicazione, e spesso le notizie che le riguardano si concentrano su aspetti estetici, relazionali o personali, piuttosto che sulle loro prestazioni. Questo squilibrio incide direttamente sulla percezione pubblica dello sport femminile, che viene marginalizzato e considerato secondario, influenzando negativamente anche il potenziale economico delle atlete.
C’è poi il fattore della rappresentanza nelle istituzioni e nei ruoli tecnici sportivi: mancano donne che ricoprono posizioni di comando nelle organizzazioni sportive.
Nelle federazioni sportive europee infatti, solo il 14% di tutte le posizioni decisionali è occupato da donne. In Italia, tra gli operatori sportivi sono donne il 19,8% degli allenatori, il 15,4% dei dirigenti di società e soltanto il 12,4% dei dirigenti di Federazione. È chiaro allora che la disparità salariale nello sport non è il frutto di una minore qualità o attrattiva dello sport femminile, ma di un sistema costruito attorno a stereotipi di genere e logiche economiche che penalizzano le donne fin dalle fondamenta. Le richieste delle giocatrici WNBA non sono quindi solo rivendicazioni salariali, ma diventano un appello a rivedere in profondità i meccanismi che regolano l’intero ecosistema sportivo.
Luce